Dante era consapevole di essere il padre della lingua italiana? E, nel caso, qual era l’ideale di lingua che aveva in mente?
Sicuramente, intendeva essere l’iniziatore di una rivoluzione linguistica fondata sull’idea che il volgare, fino ad allora solo una lingua d’uso, poteva essere anche una lingua letteraria. Dante affronta l’argomento nel De vulgari eloquentia, dove, dopo aver censito 14 varietà di volgare regionale, teorizza l’ideale di un volgare ”illustre, cardinale, aulico, curiale”; dal momento che in Italia un simile idioma non esiste, sarà compito degli uomini di cultura crearlo utilizzando il meglio dei vari dialetti. C’è però una evidente contraddizione tra questa proposta e quanto avviene nella Commedia, dove Dante utilizza il ”suo” volgare, cioè il fiorentino: proprio dallo scarto tra la mancanza di un centro politico che possa guidare il processo di unificazione linguistica e la scelta di proporre un volgare locale come lingua nazionale di cultura ha origine, nei secoli successivi, il lungo dibattito noto come ”questione della lingua”.